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					Novelle e Racconti Classici - Carlo Collodi -La festa di Natale 
					
					   
					La storia che vi racconto oggi, non è una di quelle 
							novelle, come se ne raccontano tante, ma è una 
							storia vera, vera, vera. Dovete dunque sapere che la 
							Contessa Maria (una brava donna che io ho conosciuta 
							benissimo, come conosco voi) era rimasta vedova con 
							tre figli: due maschi e una bambina. Il maggiore, di 
							nome Luigino, poteva avere fra gli otto e i nove 
							anni: Alberto, il secondo, ne finiva sette, e l'Ada, 
							la minore di tutti, era entrata appena ne' sei anni, 
							sebbene a occhio ne dimostrasse di più, a causa 
							della sua personcina alta, sottile e veramente 
							aggraziata. 
							La contessa passava molti mesi all'anno in una sua 
							villa: e non lo faceva già per divertimento, ma per 
							amore de' suoi figlioletti, che erano gracilissimi e 
							di una salute molto delicata. Finita l'ora della 
							lezione, il più gran divertimento di Luigino era 
							quello di cavalcare un magnifico cavallo sauro; un 
							animale pieno di vita e di sentimento, che sarebbe 
							stato capace di fare cento chilometri in un giorno 
							se non avesse avuto fin dalla nascita un piccolo 
							difetto: il difetto, cioè, di essere un cavallo di 
							legno! Ma Luigino gli voleva lo stesso bene, come se 
							fosse stato un cavallo vero. Basta dire, che non 
							passava sera che non lo strigliasse con una bella 
							spazzola da panni: e dopo averlo strigliato, invece 
							di fieno o di gramigna, gli metteva davanti una 
							manciata di lupini salati. E se per caso il cavallo 
							si ostinava a non voler mangiare, allora Luigino gli 
							diceva accarezzandolo: "Vedo bene che questa sera 
							non hai fame. Pazienza: i lupini li mangerò io. 
							Addio a domani, e dormi bene". E perché il cavallo 
							dormisse davvero, lo metteva a giacere sopra una 
							materassina ripiena d'ovatta: e se la stagione era 
							molto rigida e fredda, non si dimenticava mai di 
							coprirlo con un piccolo pastrano, tutto foderato di 
							lana e fatto cucire apposta dal tappezziere di casa. 
							Alberto, il fratello minore, aveva un'altra 
							passione. La sua passione era tutta per un 
							bellissimo Pulcinella, che, tirando certi fili, 
							moveva con molta sveltezza gli occhi, la bocca, le 
							braccia e le gambe, tale e quale come potrebbe fare 
							un uomo vero: e per essere un uomo vero, non gli 
							mancava che una sola cosa: il parlare. Figuratevi la 
							bizza di Alberto! Quel buon figliuolo non sapeva 
							rendersi una ragione del perché il suo Pulcinella, 
							ubbidientissimo a fare ogni sorta di movimenti, 
							avesse preso la cocciutaggine di non voler 
							discorrere a modo e verso, come discorrono tutte le 
							persone per bene, che hanno la bocca e la lingua. E 
							fra lui e Pulcinella accadevano spesso dei dialoghi 
							e dei battibecchi un tantino risentiti, sul genere 
							di questi: "Buon giorno, Pulcinella", gli diceva 
							Alberto, andando ogni mattina a tirarlo fuori dal 
							piccolo armadio dove stava riposto. "Buon giorno, 
							Pulcinella." E Pulcinella non rispondeva. "Buon 
							giorno, Pulcinella", ripeteva Alberto. E Pulcinella, 
							zitto! come se non dicessero a lui. "Su, via, 
							finiscila di fare il sordo e rispondi: buon giorno, 
							Pulcinella." E Pulcinella, duro! "Se non vuoi 
							parlare con me, guardami almeno in viso" diceva 
							Alberto un pò stizzito. E Pulcinella, ubbidiente, 
							girava subito gli occhi e lo guardava. "Ma perché", 
							gridava Alberto arrabbiandosi sempre di più, "ma 
							perché se ti dico "guardami" allora mi guardi; e se 
							ti dico "buon giorno" non mi rispondi?" E 
							Pulcinella, zitto! "Brutto dispettoso! Alza subito 
							una gamba!" E Pulcinella alzava una gamba. "Dammi la 
							mano!" E Pulcinella gli dava la mano. "Ora fammi una 
							bella carezzina!" E Pulcinella allungava il braccio 
							e prendeva Alberto per la punta del naso. "Ora 
							spalanca tutta la bocca!" E Pulcinella spalancava 
							una bocca, che pareva un forno. "Di già che hai la 
							bocca aperta, profittane almeno per darmi il buon 
							giorno." Ma il Pulcinella, invece di rispondere, 
							rimaneva lì a bocca aperta, fermo e intontito, come, 
							generalmente parlando, è il vizio di tutti gli omini 
							di legno. Alla fine Alberto, con quel piccolo 
							giudizino, che è proprio di molti ragazzi, cominciò 
							a mettersi nella testa che il suo Pulcinella non 
							volesse parlare né rispondergli, perché era 
							indispettito con lui. Indispettito!... e di che 
							cosa? Forse di vedersi mal vestito, con un 
							cappellaccio in capo di lana bianca, una camicina 
							tutta sbrindellata, e un paio di pantaloncini così 
							corti e striminziti, che gli arrivavano appena a 
							mezza gamba. "Povero Pulcinella!", disse un giorno 
							Alberto, compiangendolo sinceramente, "se tu mi 
							tieni il broncio, non hai davvero tutti i torti. Io 
							ti mando vestito peggio di un accattone... ma lascia 
							fare a me! Fra poco verranno le feste di Natale. 
							Allora potrò rompere il mio salvadanaio... e con 
							quei quattrini, voglio farti una bella giubba, mezza 
							d'oro e mezza d'argento." 
							Per intendere queste parole di Alberto, occorre 
							avvertire che la Contessa aveva messo l'uso di 
							regalare a' suoi figli due o tre soldi la settimana, 
							a seconda, s'intende bene, de' loro buoni 
							portamenti. Questi soldi andavano in tre diversi 
							salvadanai: il salvadanaio di Luigino, quello di 
							Alberto e quello dell'Ada. Otto giorni avanti la 
							pasqua di Natale, i salvadanai si rompevano, e coi 
							danari che vi si trovavano dentro, tanto la bambina, 
							come i due ragazzi erano padronissimi di comprarsi 
							qualche cosa di loro genio. Luigino, com'è naturale, 
							aveva pensato di comprare per il suo cavallo una 
							briglia di pelle lustra con le borchie di ottone, e 
							una bella gualdrappa, da potergliela gettare 
							addosso, quando era sudato. L'Ada, che aveva una 
							bambola più grande di lei, non vedeva l'ora di farle 
							un vestitino di seta, rialzato di dietro, secondo la 
							moda, e un paio di scarpine scollate per andare alle 
							feste da ballo. In quanto al desiderio di Alberto, è 
							facile immaginarselo. Il suo vivissimo desiderio era 
							quello di rivestire il Pulcinella con tanto lusso, 
							da doverlo scambiare per un signore di quelli buoni. 
							Intanto il Natale s'avvicinava, quand'ecco che una 
							mattina, mentre i due fratelli con la loro 
							sorellina, andavano a spasso per i dintorni della 
							villa, si trovarono dinanzi a una casipola tutta 
							rovinata, che pareva piuttosto una capanna da 
							pastori. Seduto sulla porta c'era un povero bambino 
							mezzo nudo, che dal freddo tremava come una foglia. 
							"Zio Bernardo, ho fame", disse il bambino con una 
							voce sottile, sottile, voltandosi appena con la 
							testa verso l'interno della stanza terrena. Nessuno 
							rispose. In quella stanza terrena c'era accovacciato 
							sul pavimento un uomo con una barbaccia rossa, che 
							teneva i gomiti appuntellati sulle ginocchia e la 
							testa fra le mani. "Zio Bernardo, ho fame!...", 
							ripeté dopo pochi minuti il bambino, con un filo di 
							voce che si sentiva appena. "Insomma vuoi finirla?", 
							gridò l'uomo dalla barbaccia rossa. "Lo sai che in 
							casa non c'è un boccone di pane: e se tu hai fame, 
							piglia questo zoccolo e mangialo!" E nel dir così, 
							quell'uomo bestiale si levò di piede uno zoccolo e 
							glielo tirò. Forse non era sua intenzione di fargli 
							del male; ma disgraziatamente lo colpì nel capo. 
							Allora Luigino, Alberto e l'Ada, commossi a quella 
							scena, tirarono fuori alcuni pezzetti di pane 
							trovati per caso nelle loro tasche, e andarono a 
							offrirli a quel disgraziato figliolo. Ma il bambino, 
							prima si toccò con la mano la ferita del capo: poi 
							guardandosi la manina tutta insanguinata, balbettò a 
							mezza voce: "Grazie... ora non ho più fame...". 
							Quando i ragazzi furono tornati alla villa, 
							raccontarono il caso compassionevole alla loro 
							mamma; e di quel caso se ne parlò due o tre giorni 
							di seguito. Poi, come accade di tutte le cose di 
							questo mondo, si finì per dimenticarlo e per non 
							parlarne più. Alberto, per altro, non se l'era 
							dimenticato: e tutte le sere andando a letto, e 
							ripensando a quel povero bambino mezzo nudo e 
							tremante dal freddo, diceva grogiolandosi fra il 
							calduccio delle lenzuola: "Oh come dev'essere 
							cattivo il freddo! Brrr...". E dopo aver detto e 
							ripetuto per due o tre volte "Oh come dev'esser 
							cattivo il freddo!" si addormentava saporitamente e 
							faceva tutto un sonno fino alla mattina. Pochi 
							giorni dopo accadde che Alberto incontrò per le 
							scale di cucina la Rosa: la quale era l'ortolana che 
							veniva a vendere le uova fresche alla villa. "Sor 
							Albertino, buon giorno signoria", disse la Rosa: 
							"quanto tempo è che non è passato dalla casa 
							dell'Orco?" "Chi è l'Orco?" "Noi si chiama con 
							questo soprannome quell'uomo dalla barbaccia rossa, 
							che sta laggiù sulla via maestra." "O il suo bambino 
							che fa?" "Povera creatura, che vuol che faccia?... È 
							rimasto senza babbo e senza mamma, alle mani di 
							quello zio Bernardo..." "Che dev'essere un uomo 
							cattivo e di cuore duro come la pietra, non è 
							vero?", soggiunse Alberto. "Pur troppo! Meno male 
							che domani parte per l'America... e forse non 
							ritornerà più." "E il nipotino lo porta con sé?" 
							"Nossignore: quel povero figliuolo l'ho preso con 
							me, e lo terrò come se fosse mio". "Brava Rosa." "A 
							dir la verità, gli volevo fare un pò di vestituccio, 
							tanto da coprirlo dal freddo... ma ora sono corta a 
							quattrini. Se Dio mi dà vita, lo rivestirò alla 
							meglio a primavera." Alberto stette un po' 
							soprappensiero, poi disse: "Senti, Rosa, domani 
							verso mezzogiorno ritorna qui, alla villa: ho 
							bisogno di vederti." "Non dubiti." 
							Il giorno seguente, era il giorno tanto atteso, 
							tanto desiderato, tanto rammentato: il giorno, cioè, 
							in cui celebravasi solennemente la rottura de' tre 
							salvadanai. Luigino trovò nel suo salvadanaio dieci 
							lire: l'Ada trovò nel suo undici lire, e Alberto vi 
							trovò nove lire e mezzo. "Il tuo salvadanaio", gli 
							disse la mamma, "è stato più povero degli altri due: 
							e sai perché? perché in quest'anno tu hai avuto poca 
							voglia di studiare." "La voglia di studiare l'ho 
							avuta", replicò Alberto, "ma bastava che mi mettessi 
							a studiare, perché la voglia mi passasse subito." 
							"Speriamo che quest'altr'anno non ti accada lo 
							stesso" soggiunse la mamma: poi volgendosi a tutti e 
							tre i figli, seguitò a dire: "Da oggi alla pasqua di 
							Natale, come sapete, vi sono otto giorni precisi. In 
							questi otto giorni, secondo i patti stabiliti, 
							ognuno di voi è padronissimo di fare quell'uso che 
							vorrà, dei danari trovati nel proprio salvadanaio. 
							Quello poi, di voialtri, che saprà farne l'uso 
							migliore, avrà da me, a titolo di premio, un 
							bellissimo bacio." "Il bacio tocca a me di certo!", 
							disse dentro di sé Luigino, pensando ai ricchi 
							finimenti e alla bella gualdrappa che aveva ordinato 
							per il suo cavallo. "Il bacio tocca a me di certo!", 
							disse dentro di sé l'Ada, pensando alle belle 
							scarpine da ballo che aveva ordinato al calzolaio 
							per la sua bambola. "Il bacio tocca a me di certo!", 
							disse dentro di sé Alberto, pensando al bel vestito 
							che voleva fare al suo Pulcinella. Ma nel tempo che 
							egli pensava al Pulcinella, sentì la voce della Rosa 
							che, chiamandolo a voce alta dal prato della villa, 
							gridava: "Sor Alberto! sor Alberto!". Alberto scese 
							subito. Che cosa dicesse alla Rosa non lo so: ma so 
							che quella buona donna, nell'andarsene, ripeté più 
							volte: "Sor Albertino, lo creda a me: lei ha fatto 
							proprio una carità fiorita, e Dio manderà del bene 
							anche a lei e a tutta la sua famiglia!". 
							Otto giorni passarono presto: e dopo otto giorni 
							arrivò la festa di Natale o il Ceppo, come lo 
							chiamano i fiorentini. Finita appena la colazione, 
							ecco che la Contessa disse sorridendo ai suoi tre 
							figli: "Oggi è Natale. Vediamo, dunque, come avete 
							speso i quattrini dei vostri salvadanai. Ricordatevi 
							intanto che, quello di voialtri che li avrà spesi 
							meglio, riceverà da me, a titolo di premio, un 
							bellissimo bacio. Su, Luigino! tu sei il maggiore e 
							tocca a te a essere il primo". Luigino uscì dalla 
							sala e ritornò quasi subito, conducendo a mano il 
							suo cavallo di legno, ornato di finimenti così 
							ricchi, e d'una gualdrappa così sfavillante, da fare 
							invidia ai cavalli degli antichi imperatori romani. 
							"Non c'è che dire", osservò la mamma, sempre 
							sorridente "quella gualdrappa e quei finimenti sono 
							bellissimi, ma per me hanno un gran difetto... il 
							difetto, cioè, di essere troppo belli per un povero 
							cavallino di legno. Avanti, Alberto! Ora tocca a 
							te." "No, no", gridò il ragazzetto, turbandosi 
							leggermente, "prima di me, tocca all'Ada." E l'Ada, 
							senza farsi pregare, uscì dalla sala, e dopo poco 
							rientrò tenendo a braccetto una bambola alta quanto 
							lei, e vestita elegantemente, secondo l'ultimo 
							figurino. "Guarda, mamma, che belle scarpine da 
							ballo!", disse l'Ada compiacendosi di mettere in 
							mostra la graziosa calzatura della sua bambola. 
							"Quelle scarpine sono un amore!", replicò la mamma. 
							"Peccato però che debbano calzare i piedi d'una 
							bambina fatta di cenci e di stucco, e che non saprà 
							mai ballare!" "E ora, Alberto, vediamo un pò come tu 
							hai speso le nove lire e mezzo, che hai trovate nel 
							tuo salvadanaio." "Ecco... io volevo... ossia, avevo 
							pensato di fare... ossia, credevo... ma poi ho 
							creduto meglio... e così oramai l'affare è fatto e 
							non se ne parli più." "Ma che cosa hai fatto?" "Non 
							ho fatto nulla." "Sicché avrai sempre in tasca i 
							danari?" "Ce li dovrei avere..." "Li hai forse 
							perduti?" "No." "E, allora, come li hai tu spesi?" 
							"Non me ne ricordo più." In questo mentre si sentì 
							bussare leggermente alla porta della sala, e una 
							voce di fuori disse: "È permesso?." "Avanti." 
							Apertasi la porta, si presentò sulla soglia, 
							indovinate chi! Si presentò la Rosa ortolana, che 
							teneva per la mano un bimbetto tutto rivestito di 
							panno ordinario, ma nuovo, con un berrettino di 
							panno, nuovo anche quello, e in piedi un paio di 
							stivaletti di pelle bianca da campagnolo. "È tuo, 
							Rosa, codesto bambino?", domandò la Contessa. "Ora è 
							lo stesso che sia mio, perché l'ho preso con me e 
							gli voglio bene, come a un figliolo. Povera 
							creatura! Finora ha patito la fame e il freddo. Ora 
							il freddo non lo patisce più, perché ha trovato un 
							angiolo di benefattore, che lo ha rivestito a sue 
							spese da capo a piedi." "E chi è quest'angelo di 
							benefattore?", chiese la Contessa. L'ortolana si 
							voltò verso Alberto, e guardandolo in viso e 
							accennandolo alla sua mamma, disse tutta contenta: 
							"Eccolo là." Albertino diventò rosso come una 
							ciliegia: poi rivolgendosi impermalito alla Rosa, 
							cominciò a gridare: "Chiacchierona! Eppure ti avevo 
							detto di non raccontar nulla a nessuno!...". "La 
							scusi: che c'è forse da vergognarsi per aver fatto 
							una bell'opera di carità come la sua?" 
							"Chiacchierona! chiacchierona! chiacchierona!", 
							ripeté Alberto, arrabbiandosi sempre più; e tutto 
							stizzito fuggì via dalla sala. La sua mamma, che 
							aveva capito ogni cosa, lo chiamò più volte: ma 
							siccome Alberto non rispondeva, allora si alzò dalla 
							poltrona e andò a cercarlo da per tutto. Trovatolo 
							finalmente nascosto in guardaroba, lo abbracciò 
							amorosamente, e invece di dargli a titolo di premio 
							un bacio, gliene dette per lo meno più di cento. 
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